I Basiliani pomiglianesi e la Pistis Sophia

La Chiesa di Santa Maria del Carmine di Pomigliano ha origini antichissime, sicuramente anteriore anche a quella in onore del Santo patrono della cittadina, Felice in Pincis, la cui chiesa sorgeva inizialmente non dove è ora presente, ove ce ne era un’altra dedicata a San Paolino da Nola, ma nei pressi del rione “Spitale” o “Spedale”, che sta a significare “ospitale”, all’interno delle antiche mura, e per la precisione, non di poco conto, come emerge da una scrittura privata di tale Bartolomeo Capasso del maggio 1073, “Sergio e Simone, abitanti in Pomigliano fuori dell’Arco un tempo dell’acquedotto”.

La chiesa di cui parliamo, invece, era dunque posta al di fori delle mura cittadine, eretta in tempi remoti e detta di “Santa Croce”, da una croce bizantina posta su di una colonna nel largo antistante la piazza, colonna tutt’ora esistente, e situata in Piazza Mercato. La croce tuttavia è andata persa ed al suo posto sono presenti tre pomi, simbolo da qualche secolo della città, nonché stendardo e gonfalone.

La Chiesa sorgeva dove vi era l’alveo di un fiume, la piazza, infatti, anticamente era solcata da un alveo, in seguito arginato con delle mura nelle quali vi erano delle scalette per passare da una riva all’altra. Delle stupende “orbite”, come i Cieli del Paradiso dantesco o i canali di Atlantide. Il fiume riteniamo, come ampliamente detto altrove, essere il Sebeto.

Nella chiesa si insediarono i monaci Basiliani, che dimoravano nell’annesso convento.

I Basiliani sono monaci che si ispirano alla regola dettata da San Basilio Magno, nato intorno al 330 in Cappadocia, a Cesarea, oggi Kaysery.

La sua fu una famiglia “tutta santa”, a partire dai genitori, e dal fratello, san Gregorio di Nanzianzo, assieme al quale, dopo una vita di peregrinazioni ed ascesi scrisse la regola dell’ordine. Impegnatissimo soprattutto nella difesa del dogma trinitario (celebre l’affermazione ““Una sola essenza in tre ipostasi”), con particolare riguardo alle opere scritte sullo Spirito Santo, condusse valenti battaglie contro l’eresia ariana, tanto che la sua abilità nella predicazione gli avvalsero l’appellativo di “Magno” Morì nel 379 a Cesarea. E’ anche Padre e Dottore della Chiesa.

La Regola basiliana fu redatta in due tempi successivi ed in due parti: la prima (Regulae fusius tractatae) comprende 55 articoli sui doveri generali del monaco, definito “fratello”, la seconda (Regulae brevius tractatae) è una specie di casistica pratica sulla vita monastica. La vita monastica come lo stato ideale per raggiungere la perfezione cristiana, o meglio invita tutti, anche chi oggi definiremmo laico, a condurre, indipendentemente dalla propria condizione di vita, uno specifico stile di vita.

Tuttavia alla contemplazione ed alla preghiera egli associa la vita attiva, al servizio degli altri, e non a caso i suoi conventi sorgevano spesso nelle periferie delle città, spesso presso le grotte, le rive, gli alvei o le sorgenti dei fiumi, insomma l’ubicazione perfetta per la Chiesa di cui stiamo discutendo.

Il Typikòn (Santa Regola) afferma che i discepoli sono nel mondo ma non del mondo ed il monaco è colui che, rispondendo all’appello di Dio che lo chiama si reca nel deserto per scoprire e parlare al suo cuore, vivendo una vita angelica, ponendosi come gli angeli nella docilità di spirito, pur consapevole delle proprie debolezze e miserie. I Santi particolarmente cari ai Basiliani sono Maria Madre di Dio, Giovanni Battista, Maria di Betania, il Discepolo prediletto, ossia Giovanni.

Ma l’aspetto più significativo è incentrato sul cosiddetto “secondo battesimo”, tipico dell’attività monacale, ma che nella dimensione dell’ordine di San Basilio trova una luce nuova ed escatologica, ossia il passaggio dall’”uomo vecchio”, figlio della vanità, dell’amor proprio, dell’ambizione e dell’egoismo, all’”uomo nuovo”, figlio della spiritualità, dell’amore per Dio ed il prossimo, per la rinuncia a sé, e per la misericordia. L’ordine, di origini egiziane, palestinesi, siriane e turche, si spostò nei paesi dell’Italia meridionale per sfuggire alla lotta iconoclasta, soprattutto nel Salento, in Calabria, in Campania ed anche in Sicilia.

Oltre alla contemplazione si occuparono dell’istruzione di adulti e bambini, insegnarono i mestieri della pesca e dell’agricoltura, dissodarono i terreni e resero fertili le zone paludose che venivano poi affidate alla gente del posto per la coltivazione. Attività senz’altro compiuta anche presso il borgo Santa Croce della terra pomilia.

Altra occupazione dei Basiliani era il conforto per chi aveva perso qualcuno, il cosiddetto “consolamentum” che poi diverrà anche una pratica dei Catari.

Bene, non ci sorprende che tali monaci, residenti in grotte, abbiano avuto contatto con i Cimmeri, popolo  nékya, capace di evocare morti , originario del Mar Morto-ove furono trovati i celebri rotoli e scacciati dagli Sciiti, sconfitti dagli Assiri, in contatto anche con i Persiani, anzi sicuramente abitanti originari della Persia –oggi Iran-   si recarono nella Terra di Saturno, in Italia. Popolazione che viveva nella nebbia, ci dice Omero, nelle grotte, e conosciuta ai partenopei dell’epoca, che ha conservato culti ancestrali e sincretici.

La prima traccia dei Basiliani in Pomigliano appare in un documento del 1028, una pergamena nella quale è menzionata l’esistenza già da tempo di detto convento di Santa Croce, un certo Giovanni chiese ed ottenne, infatti, un campo in Pomigliano, col diritto di trattenere la metà del raccolto e l’obbligo di darne l’altra metà ai concedenti, recandola presso il monastero pomiglianese stesso. Detta richiesta e detta concessione fu data dal monastero dei Santi Sergio e Bacco, di Napoli. Si tratta di un antico monastero, non più esistente, posto ad oriente del Castrum Lucullanum.

Il Castrum Lucullianum era la Villa di Licinio Lucullo, militare ed uomo di cultura della Roma antica, noto per le sue campagne militari in Oriente, nel corso delle quali ebbe modo di entrare in contatto con una certa cultura, è noto al volgo per le sue raffinate abitudini alimentari (ancora oggi è comune chiamare un pasto sontuoso, fine ed abbondante “luculliano”), nonché per aver portato in occidente, per primo, le piante di pesco e cerasa (ciliegia). La villa fu edificata nel I secolo a.C. a Napoli, estendendosi dall’isolotto di Megaride fino al monte Echia sul lato sud e, stando agli ultimi rinvenimenti archeologici, sul lato sud-est anche fino al circondario del Maschio Angioino, nei pressi di piazza Municipio. Un vero e proprio paradiso terrestre, dotato di laghetti di pesci e di moli che si protendevano sul mare, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, e di ciliegi importati da Cerasunto.

La fortezza di Lucullo si estendeva anche nel celebre isolotto ove ora sorge il misterioso Castel dell’Ovo, quello di Megaride appunto. La cosiddetta “sala delle colonne”, ad esempio, ancora rimasta intatta, e che deve il suo nome proprio alle colonne di epoca romana, era un antico ambiente della fortezza risalente appunto all’epoca in cui sorgeva sull’isolotto la villa del generale Lucullo. Dai suoi numerosi viaggi, soprattutto dalle battaglie in Oriente, Lucullo raccolse una ingente quantità di rotoli, pergamene e libri che raccolse a Napoli in una ricchissima biblioteca. Qui iniziano i misteri sul contenuto di tale arcaica conoscenza, qui i miti e qui non si può tacere circa il famoso Virgilio Mago, personaggio cardine delle leggende e della sotterranea cultura napoletana.

Premettiamo però che, alla morte di Lucullo la villa passa all’imperatore romano, perdendo rilevanza, mentre con Valentiniano III, verrà trasformata in una fortezza. Durante il medioevo i monaci basiliani prendono il possesso della villa-fortezza, facendola diventare un monastero. Le sale che edificarono furono fatte sui resti della villa romana, molte sale sono state destinate poi negli anni successivi a refettori, ma soprattutto a luoghi di scrittura, dove venivano trascritti e studiati i libri antichi, e tra questi, senz’altro, gli antichi testi orientali della biblioteca luculliana, operazione di molto agevolata ai basiliani data la loro amplissima conoscenza del greco. Fu proprio ove ora sorge Castel dell’Ovo, sull’isolotto di Megaride, che vi fu lo stanziamento principale, furono anche traslati i resti dell’abate Severino.

L’isola, dunque, divenne fiorente centro di cultura durante il VI secolo, a partire dal quale i monaci si dedicarono a copiare codici, creando preziose raccolte e intessendo relazioni con i maggiori centri religiosi, all’epoca depositari della cultura poiché sede della raccolta di manoscritti. Affluirono anche codici e pergamene dalle più importanti raccolte conventuali per essere trascritti dagli amanuensi del Cenobio luculliano e il richiamo che esercitò questa “schola scriptoria”, antecedente diretto del Monastero di Montecassino, conferì a Napoli un ruolo primario tra i centri di cultura occidentali, quasi divenne Napoli, con tale biblioteca, la nuova Alessandria d’Egitto, i cui rotoli che raccoglievano la sapienza dell’intero mondo conosciuto andarono perduti  nei celebri due incendi.

Insomma anche qui i basiliani senz’altro conservarono codici, immagini sacre, opere d’arte e della cultura greco-latina, copiando e realizzando miniature. E senz’altro conservarono anche quella “sotterranea sapienza” attribuita a Virgilio mago.

Parliamo di Publio Virgilio Marone, il celebre autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche, nato a Mantova nel 70 a.C. e morto a Brindisi nel 19 a. C., e sepolto a Napoli. Durante il Medioevo Napoli non ne ebbe solo passione, ammirazione e memoria ma ne celebrò un vero e proprio culto, non solo da parte del volgo e non solo per superstizione.

Quello che qui interessa è la dottrina orfico-pitagorica sottesa alla figura del Virgilio mago, ed assieme ad essa alcuni riferimenti che possono trarsi sul Sebeto sino ad arrivare alla Pistis Sophia

Legata a Virgilio, che ne accennerà anche nell’Eneide, nell’episodio della sibilla di Cuma –come anche qui non pensare ai Cimmeri ed ai Basiliani- è la profezia del “Grande Anno”, secondo la quale la vita sarebbe scandita in grandi cicli che prenderebbero il nome da metalli (oro, argento, ferro, rame, bronzo e via di seguito) il cui ciclo finale sarebbe retto dal sole, sino al ritorno dell’epoca dell’oro sotto Saturno. Interessante notare anche il fatto che, accanto a tale credenza vi è anche quella dell’”uomo nuovo” che soppianta l’”uomo vecchio”, vale a dire il sacerdote, che rappresenta le virtù dello spirito, dotato cioè di pazienza, umiltà, senso di giustizia e misericordia, che sostituisce il guerriero, l’uomo vecchio, l’uomo istinto, colui che agisce per l’istinto, per egoismo, per il proprio tornaconto e che vede nella guerra il massimo valore.

Non sorprende, come abbiamo accennato sopra, che tale concezione è tipica anche dei monaci basiliani, pensare alla chiesa costruita su delle orbiti che richiamano il tempo, l’universo, i gradi di ascesa, così come i “due battesimi” sapienze mutuate dai riti alessandrini, presenti da tempo immemore a Napoli.

La leggenda di Virgilio mago inoltre, si inserì, proprio nel periodo normanno ed angioino, ed i basiliani certo erano presenti a Napoli in quel periodo, almeno sicuramente subito prima ed agli albori. E Virgilio è legato anche all’isolotto di Megaride ed a Castel dell’Ovo il cui nome si deve proprio ad una leggenda su Virgilio che vi posizionò all’interno un uovo per garantirne la solidità ed assieme ad esso la solidità della stessa Napoli. E l’uovo è senz’altro anche inteso come uovo filosofico, nome esoterico dell’ “Athanor”, il piccolo forno chiuso di metallo o vetro nel quale avveniva la trasmutazione dello zolfo e del mercurio in metallo prezioso, simbolo del passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo.

La presenza di tale cultura magico-esoterica, connessa alla sapienza greco-alessandrina è testimoniata anche se vogliamo prendere come simbolico il racconto secondo il quale Virgilio mago apprese la sua arte dai libri magici raccolti assieme al discepolo Filomeno sul monte Barbaro ove sorgeva la tomba del centauro Chirone. E’ noto, infatti, che nell’antica Neapolis viveva una colonia alessandrina ancora oggi testimoniata dalla statua del Nilo, nonché la forma a “Y” del quartiere Forcella, giusto per citare due dei tantissimi riferimenti. Vivo il culto mitraico, la connessa concezione trinitaria delle cose e del divino, tutto mantenuto nell’humus del culto medioevale di Virgilio mago.

E se c’erano gli Egiziani, c’era il culto di Iside, la dea degli iniziati.

Giovanni Di Rubba

Bibliografia

Cantone Salvatore; Cenni Storici di Pomigliano d’Arco; Nola, A. Gallina; 1923

Kingsley Peter; Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica; Il Saggiatore; 2007; I ed. 1995

Piedimonte Antonio Emanuele; Napoli segreta. Breve viaggio esoterico nella città dei misteri, tra leggende, miracoli e magie, da Iside ad Internet; Intra Moenia editore

Sitografia

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